Un giovane veneto su due ha contratti precari: è una quota enorme, che traccia prospettive di future pensioni povere, di carriere mancate e di rinvio nel tempo dei progetti di vita.
Ma la precarietà non investe solo le nuove generazioni ed oggi stiamo assistendo ad un incremento delle forme più estreme e sottopagate di precarietà (come voucher e tirocini) tra gli over cinquantenni, arrivando all’aberrazione per cui strumenti (stage e tirocini) pensati per addestrare al lavoro giovani senza esperienza sono diventati non solo una condizione che si ripete per anni tra le generazioni più recenti ma addirittura un’opportunità lavorativa per chi, rimasto disoccupato in età adulta, accetta anche questi lavori e le relative retribuzioni da qualche centinaio di euro, senza protezioni e contributi.
A ciò si affianca una marea di partite Iva, di lavoratori parasubordinati con rapporti di lavoro altamente volatili, di lavoro autonomo occasionale (professionisti) attualmente in crescita a fronte del restringersi delle norme per i collaboratori a progetto. E poi le forme più “classiche” dei tempi determinati, del lavoro in somministrazione, ecc.
Delle condizioni di lavoro precarie si occupa ora un convegno della Cgil del Veneto che intende contrastare, anche con la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare, una deriva preoccupante legata ad un lavoro completamente privo di diritti e tutele ed arrivato a toccare ormai una quota che supera il 15% degli occupati in regione.
L’appuntamento è per venerdì 17 giugno, alle ore 9,30 a Padova al caffè Pedrocchi (sala Rossini). Interverranno, oltre ai responsabili regionale e nazionale di NIdiL Cgil, Luigino Tasinato e Claudio Treves, alcuni lavoratori precari che racconteranno le proprie esperienze e studenti che parleranno delle proprie aspettative.
L’idea di fondo che la Cgil intende lanciare è che non possa esistere lavoro senza alcuni diritti fondamentali, oggi negati a chi non rientra nelle fasce più tutelate. Sono il diritto al sapere (istruzione e formazione permanente), all’equo compenso (ogni professionalità ha diritto alla pari retribuzione), agli ammortizzatori sociali (sostegno in caso di perdita del lavoro), alla libertà di espressione e di associazione, alla sicurezza sul lavoro, alla malattia, al riposo, alla tutela pensionistica oltre che alle pari opportunità.
Ma c’è anche l’idea che più di 40 tipologie lavorative previste in Italia siano troppe, che forme come il lavoro accessorio (voucher) debbano essere cancellate, che ciò che è nei fatti lavoro subordinato vada trattato come tale, che il lavoro temporaneo non debba costare alle aziende meno di quello stabile.
Insomma, la precarietà non può essere il “marchingegno” per avere quote strutturali di lavoro a buon mercato. Ciò è uno snodo essenziale nell’attuale fase (la quarta rivoluzione industriale) che premia le imprese innovative ed incrementa la responsabilità del lavoratore nel ciclo produttivo chiedendone saperi, competenze e creatività. Tutti fattori che si collocano all’opposto del lavoro povero sul quale non si investe.
Dietro al dilagare della precarietà vi è dunque un problema non solo di qualità sociale legata alla condizione lavorativa di una quota ormai troppo consistente di persone, ma anche di qualità del tessuto economico e produttivo che deve imboccare la strada dell’innovazione e della qualificazione del lavoro. Adagiarsi su settori maturi e privi di prospettive, pensando ad una competitività giocata al ribasso sul costo del lavoro, è un’idea perdente che ci condannerebbe al declino.