Lunedì 28 giugno è stato presentato il progetto di ricerca della Fiom del Veneto, finalizzato a presentare i progetti di politica industriale in grado di incrociare le principali missioni del Recovery Plan italiano.
La finalità della Fiom Veneto è quella di fare in modo che le ingenti risorse del Recovery vengano utilizzate per rafforzare ed espandere la struttura industriale del territorio, in modo da creare nuova e buona occupazione.
La transizione digitale, che implica investimenti nei settori ICT e TLC, e quella ecologica, che implica investimenti nei settori dell’energia e dei trasporti, devono costituire un’occasione per rafforzare le filiere industriali di produzione localizzate sul territorio; altrimenti il rischio è che queste tecnologia vengano importate dall’estero.
In questo modo, anziché creare posti di lavoro in Italia, si finirebbe soltanto per aumentare le importazioni di beni e tecnologie dall’estero, in particolare dalla Germania.
La presentazione della ricerca consente di evidenziare lo stato della capacità produttiva in questi settori e di quantificare quanto attualmente è sbilanciata verso le importazioni.
La Fiom Veneto, con questa ricerca, si propone di definire progetti concreti di politica industriale finalizzati al rafforzamento e all’espansione della produzione industriale del territorio, e quindi dei livelli occupazionali.
“Noi riteniamo che il Recovery Fund debba essere utilizzato per attuare un’uscita dalla crisi che veda un modello di sviluppo alternativo a quello che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni di politiche economiche e che, a nostro giudizio, è anche stato un amplificatore degli effetti negativi della pandemia, anche dal punto di vista economico e sociale, in particolar modo nelle fasce più deboli.
La pandemia, inoltre, ha messo a nudo le distorsioni del modello di sviluppo che ha caratterizzato le politiche economiche degli ultimi decenni, quello che è comunemente chiamato “liberismo”. L’emergenza COVID ha riproposto con forza la necessità dell’intervento pubblico: in particolare il ruolo della sanità pubblica ma anche dell’intervento pubblico in economia, attraverso l’intervento diretto di sostegno economico delle fasce più colpite della popolazione.
Era quindi ragionevole pensare che l’uscita dalla crisi, dovesse passare attraverso un modello di sviluppo diverso: basato sulla compatibilità ambientale, sulla centralità del lavoro e dei diritti, su di un rinnovato ruolo pubblico in economia.
I presupposti c’erano tutti, ma l’impressione è che, invece, si stia andando nella direzione di utilizzare queste risorse, non per cambiare modello di sviluppo, ma, anzi, per conservarlo e rafforzarlo.
I segnali che vanno in questa direzione sono tanti: dall’imminente sblocco dei licenziamenti e dalla mancanza di ammortizzatori sociali veramente universali, alla assenza di politiche industriali e di gestione delle crisi, al mancato coinvolgimento delle parti sociali (anzi del sindacato) sull’utilizzo delle risorse del Recovery.” Antonio Silvestri – Segretario generale Fiom Veneto
“Uno dei pericoli maggiori del PNRR è determinato dal rischio che una mole ingente di miliardi venga utilizzata non per rafforzare l’industria e l’occupazione del territorio, ma, al contrario, per incrementare le importazioni dall’estero. Ad esempio, se si punta sulle energie rinnovabili, sull’idrogeno, sulla digitalizzazione e i nuovi sistemi di TLC sono necessarie fabbriche che producano queste tecnologie. Nel PNRR, ad eccezione di un’indicazione ad una fabbrica di pannelli, non vi è alcun riferimento all’intenzione del governo di creare queste industrie: pensiamo all’esempio degli autobus che, a fronte di oltre 4000 veicoli immatricolati in Italia nel 2019, di essi sono 148 sono stati prodotti sul nostro territorio o, ancora, si pensi all’esempio di un’impresa pubblica come Fincantieri che dovrebbe essere orientata a produrre le piattaforme offshore per le energie rinnovabili, ma che non viene nemmeno citata. Il rischio, quindi, è che gli investimenti del Recovery finiscano per consolidare l’attuale divisione del lavoro in Europa, che vede l’Italia in posizione subordinata, cioè come mera fornitrice di componentistica verso le filiere industriali localizzate altrove, in particolare in Germania e Francia.” Matteo Gaddi – Ricercatore della Fondazione Claudio Sabattini.