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La crisi pandemica tra le lavoratrici venete del settore Servizi

Si è tenuta nel pomeriggio di ieri, mercoledì 30 giugno, l’iniziativa on line organizzata da Filcams Cgil Veneto e da Filcams Cgil Lombardia: LA CRISI PANDEMICA TRA LE LAVORATRICI DEL SETTORE DEI SERVIZI, nel corso della quale sono stati presentati i risultati di una ricerca di prossima pubblicazione che ha analizzato la situazione regionale. 
L’incontro è stato presieduto da Roberto Morea (della rete europea transform! europe). 

È intervenuta Tania Toffanin, sociologa del lavoro che ha condotto la ricerca. Ne hanno discusso lavoratrici, lavoratori, funzionarie e funzionari sindacali. 
I primi dati emersi riguardano l’incidenza della pandemia sull’occupazione nei servizi. 

In Veneto, nei primi nove mesi del 2020, sono stati persi – rispetto al 2019 – 37.000 posti di lavoro in questo ambito, 30.000 occupati da donne, 7.000 da uomini. Numeri in controtendenza rispetto per esempio alla Lombardia, dove sono molti più i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro (74.000) rispetto alle donne (23.000). A livello nazionale i valori sono più in equilibrio (con 316.000 posti di lavoro persi dagli uomini e 329.000 tra le donne). Nel settore dei servizi gli occupati totali in Veneto sono 1.323.000. 

Nel settore più specifico che comprende: commercio, alberghi, ristoranti, sono sempre le donne a pagare il prezzo più salato. 24.000 lavoratrici hanno perso l’occupazione nei primi nove mesi del 2020, rispetto al 2019, a fronte di un incremento dell’occupazione maschile (+ 17.000). 

Dalle interviste effettuate nel corso della ricerca alle lavoratrici, alle funzionarie e ai funzionari sindacali di Filcams Cgil di Veneto e Lombardia, emerge il seguente quadro: 

1) la diffusa presenza del part-time involontario ha delle conseguenze dirette nel contenimento salariale e negli istituti contrattuali come pure nell’integrazione salariale in caso di sospensione dell’attività lavorativa. Nei settori analizzati il contratto a tempo parziale è utilizzato per rispondere principalmente ai bisogni di contenimento del costo del lavoro da parte delle imprese. Per le ragioni citate, questa forma contrattuale limita la possibilità di integrare il salario percepito con altre fonti di reddito, costringendo in definitiva le lavoratrici a dipendere in toto dall’organizzazione del lavoro definita nell’impresa; 

2) i cambiamenti che stanno interessando gli assetti demografici e familiari hanno anch’essi delle implicazioni dirette sulle lavoratrici del settore: lavoratrici mono-reddito, spesso madri sole, anche con situazioni conflittuali con l’ex partner, faticano a percepire un salario adeguato ai fabbisogni propri e della prole. Questa condizione le rende estremamente vulnerabili sul piano delle condizioni materiali e a rischio di povertà ed esclusione sociale; 

3) l’assenza di misure e politiche pubbliche per infanzia e persone non autosufficienti aumenta il disagio delle lavoratrici del settore, le quali sono costrette a dipendere da orari rigidi e al contempo dover bilanciare l’attività lavorativa con il lavoro domestico e di cura. Questo aspetto è causa e anche effetto del part-time involontario: proprio per bilanciare bisogno di reddito e cura dei familiari, molte lavoratrici sono costrette (non possiamo parlare di scelta autonoma) ad accettare una forma di lavoro a tempo parziale con le implicazioni già esaminate; 

4) nel turismo la discontinuità del reddito è ancora maggiore e nel caso di aree nelle quali il turismo è una monocultura produttiva (es. Lago di Garda, Venezia…) il rischio di dipendere in toto dall’andamento della stagionalità è elevato. Tale rischio spesso coinvolge interi nuclei familiari, aumentando quindi il rischio di povertà ed esclusione sociale; 

5) la pandemia da SARS-CoV-2 ha posto in luce i dilemmi già presenti nei settori analizzati e in particolare: la disomogeneità degli strumenti di integrazione al reddito; la rigidità dell’organizzazione del lavoro associata alla diffusione del part-time involontario; il sistema di appalti e subappalti che di fatto vanifica per le organizzazioni sindacali la ricomposizione degli interessi e la tutela collettiva. 

A pagare le conseguenze più pesanti alla crisi economica determinata dall’emergenza sanitaria – dichiara Cecilia De Pantz, segretaria generale Filcams Cgil Veneto – è stato il settore dei servizi, che ha subito più di ogni altro le restrizioni. Le lavoratrici sono state indubbiamente le più colpite, come dimostrano i numeri inequivocabili della ricerca che abbiamo commissionato. Il Veneto è, da questo punto di vista, tra le regioni peggiori del Paese. Segno che la precarietà del lavoro, in particolare nel commercio e nel turismo, qui colpisce più che altrove. Ed è anche la ragione principale dei numeri dell’emigrazione, che vedono il nostro territorio tra quelli a maggior tasso di trasferimento (12.000 persone, soprattutto giovani, che si cancellano dalle nostre anagrafi). L’uscita dalla pandemia deve coincidere con un cambiamento radicale di questa situazione. Dobbiamo puntare sul lavoro di qualità e sull’occupazione giovanile e femminile. Altrimenti nessuna ripresa solida sarà possibile”. 

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